come anche nello sport nazionale il Nord si è avvantaggiato
di Angelo Forgione99 scudetti al Nord su 107 assegnati. Questo è il computo dell’albo d’oro della Serie A che solo otto volte ha visto rovesciato a favore del Sud il risultato sportivo dettato alla vigilia dalle gerarchie finanziarie. Il calcio, che è espressione sociale del paese, rispecchia fedelmente la storia d’Italia ed è spunto per una profonda riflessione identitaria. Si tratta di uno show-business basato sui bacini d’utenza, squilibrati a vantaggio delle squadre del Nord che attingono dal serbatoio di passione del Sud laddove solo il Napoli e la Roma riescono a tenere botta in qualche modo. Ma è confronto impari, uno scontro tra correnti sportive nate con una netta disparità di opportunità oggi attenuata solo in parte e ben lungi dall’essere annullata. La domanda da porsi è questa: le grandi società del Nord sarebbero tali oggi se l’Italia, in quanto nazione unica, fosse stata unificata su un principio federale che avesse garantito pari opportunità di sviluppo alle due parti del paese? La risposta probabilmente è si, ma al pari di sodalizi del Sud e quindi non nelle dimensioni attuali. A scorrere l’albo d’oro della Serie A, il dominio delle squadre nordiche appare schiacciante ma l’analisi dei freddi numeri va empiricamente riformulata partendo innanzitutto dalla considerazione delle variabili demografiche ed economiche cui riferirsi per giudicare le performance storiche delle squadre italiane. Napoli e Torino, ad esempio, pur essendo città popolate alla stessa maniera, differiscono per disponibilità di impiantistica sportiva utile ai vivai e di risorse economiche da investire sul territorio. Uno studio del Prof. Marco Di Domizio, ricercatore di Economia Politica dell’Università di Teramo, ha rapportato la localizzazione geografica e le prestazioni sportive delle squadre italiane evidenziando che, nell’analisi dei parametri comparati del PIL pro-capite e del piazzamento medio relativo dell’ultimo secolo, i risultati della Roma e del Napoli sono a tutti gli effetti da considerarsi a livello di quelli di Inter e Milan, molto più vicini a quelli della Juventus di quanto non dica la differenza di scudetti in bacheca, e superiori a quelli di Torino, Sampdoria e Bologna che non sono riuscite a sfruttare le potenzialità economiche del proprio territorio. Parziale giustificazione per il Torino che ha visto azzerata la sua vita sportiva dalla tragedia di Superga, mentre discorso a parte va fatto per il Genoa i cui scudetti appartengono, come vedremo, agli albori di un torneo privo di una vera competizione nazionale. Un altro strumento di lettura è quello del contesto storico in cui si sono svolte le competizioni sportive e, soprattutto, come esse sono nate, sviluppatesi e consolidatesi. L’unità d’Italia fu un processo veicolato da Nord privo di un patto equo tra le due parti del paese attraverso il quale il settentrione dettò decisioni finalizzate alla propria crescita e il meridione si limitò a subirle. Si generò la “questione meridionale” che si è riversata a cascata anche nel calcio; ancora oggi il blasone delle tre grandi squadre settentrionali e la disparità di risultati storici catalizzano consensi nei più giovani su tutta la verticale del paese, ingrossando quel seguito che a sua volta accresce il potere economico e non solo. Si può affermare che l’emigrazione è anche una questione sportiva, con un flusso di passione che dal Sud prende la via del Nord.
La “filiera” del prestigio ha funzionato e continua a funzionare con apparente regolarità: le squadre che hanno vinto hanno guadagnano trofei, i trofei hanno accresciuto il blasone e il blasone ha ampliato seguito e tifosi. In questo iter, il ruolo di protagonisti è tutto dei bambini che in tenera età coltivano il mito della squadra vincente di cui sentono parlare in termini positivi e, per vincere piuttosto che per partecipare, salgono sul cavallo vincente; per decenni le vittorie delle squadre del settentrione hanno fatto salire sul “carro dei vincitori” intere generazioni di piccoli appassionati.
Ricostruire la storia del calcio nel nostro paese è fondamentale per capire il background sociale del Campionato Nazionale Italiano che accomuna espressioni sportive diverse, quelle del Nord e quelle del Sud. Il football nasce in Gran Bretagna nella seconda metà dell’ottocento, proprio quando l’Italia consegue la sua unità, raggiungendo la nostra penisola a fine secolo allorché, come detto, la “questione meridionale” è già cronica fisionomia della formata società italica. Sono le città portuali che vedono sbarcare dalle navi i primi palloni e la terminologia di uno sport che avrebbe conquistato il mondo anche attraverso i porti del Sudamerica. I soci dei primissimi “clubs” italiani, non a caso così detti, erano appunto britannici che curavano i traffici commerciali via mare. Tant’è che il più antico sodalizio italiano è il “Cricket and Football Club 1893 Genoa”, traduzione inglese di Genova, città il cui porto accoglieva copiose le navi battenti bandiera britannica dai colori rosso e blu che furono adottati per la divisa sociale.
Genova non era altro che il porto del Regno di Sardegna, patria preunitaria dei reali Savoia, e pertanto beneficiò di privilegi territoriali e decisioni del nuovo stato a scapito di Napoli che era stata la città con i maggiori flussi mercantili e in cui aveva messo radici una vasta comunità britannica, prima di divenire porto di partenza per gli emigranti. Non è dunque un azzardo ipotizzare che se il football fosse nato cinquant’anni prima, o se l’Italia si fosse unita in maniera federale, il calcio italiano sarebbe germogliato a Sud e magari il primo club italiano sarebbe oggi napoletano anziché genovese.
Il primo campionato nazionale si disputa al tramonto dell’ottocento, precisamente nel 1898, quando l’Italia è unita da una trentina d’anni. E come dimostrato da CNR, Banca d’Italia, SVIMEZ e ISTAT, in quei trent’anni il PIL pro-capite del paese, che al momento dell’unità era sostanzialmente identico tra le due parti geografiche d’Italia, si era già sbilanciato fortemente a favore del Nord per via di una politica di asfissia economica del meridione a vantaggio del settentrione. Proprio nel 1873, durante una seduta del Parlamento italiano, si ascolta per la prima volta nella storia il termine “questione meridionale” per descrivere le critiche condizioni economiche in cui il Mezzogiorno d’Italia è piombato in conseguenza dell’unificazione del paese. Lo smantellamento delle industrie del Sud avviato nel 1861 dura i dieci anni che portano all’unificazione completa del paese con l’annessione di Roma. Nonostante quel decennio tragico, nel 1871 il tasso d’industrializzazione della provincia di Napoli regge ancora all’1.44%, meglio di quella Torino che è all’1.41%. Quello della Sicilia è identico a quello del Veneto, quello calabrese simile a quello dell’Emilia Romagna.Nel 1911, il Piemonte è già salito dall’1.13% al 1.30%; la Lombardia dall’1.37% all’1.67; la Liguria dall’1.48% all’1.62%. Di contro, la Campania scende dall’1.01% allo 0.93% e, peggio ancora, crollano Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata intorno allo 0.60%.Ad inizio novecento, a trainare l’economia sono le fabbriche del Nord come l’Ansaldo di Genova che beneficia delle commesse sottratte alle fonderie Napoletane di Pietrarsa, e la Fiat di Torino. Comincia a definirsi il cosiddetto “triangolo industriale” compreso tra Torino, Genova e Milano dove inizia a concentrarsi l’offerta di lavoro e la conseguente immigrazione dalle altre zone del paese. NellaTorino dei Savoia, e non poteva essere altrimenti, il 16 Marzo del 1898 nasce la “Federazione Italiana Football”, che diventerà poi l’attuale FIGC, la quale provvede ad organizzare il nascente movimento calcistico italiano che già poggia su un fondamento sbagliato: è esclusivamente settentrionale. Sono infatti invitate ad aderirvi quattro squadre delle privilegiate Torino e Genova che danno vita al primo torneo: l’Internazionale Torino, l’FC Torinese, la Ginnastica Torino e il Genoa che si scontrano in un quadrangolare secco al velodromo “Umberto I” di Torino. Vince il Genoa. Progressivamente si aggiungono alla competizione altre squadre genovesi, e poi di Milano, compreso il Milan (altro nome britannico) che compare a braccetto con la Juventus. Dopo dieci anni, il triangolo industriale comincia ad estendersi al nord-est e, non per caso, al campionato federale detto italiano di Piemonte, Liguria e Lombardia si aggiunge il Veneto. Solo squadre del nord dunque, nonostante l’interessamento al calcio di nuovi sodalizi di diverse latitudini che però non vengono ammessi al “divertimento dei grandi” per manifesta e imbarazzante inferiorità cagionata dalle diverse opportunità economiche e da una partenza ad handicap che squilibrano a senso unico i test-match amichevoli e i primi timidi tentativi di confronti tra campioni del Nord e del Sud. Nascono dei campionati del resto d’Italia scissi da quelli che al Nord decretano la squadra Campione d’Italia. Un muro culturale e sociale inaccetabile, un’aberrazione che conferma indirettamente anche nello sport gli errori compiuti dal regime sabaudo tanto nel processo unitario quanto in quello post-unitario; i vertici del calcio certificano lo strapotere economico dei clubs nordici e ghettizzano le altre squadre alle quali non è data la possibilità di confrontarsi e crescere. E per ben 28 anni quello che è detto campionato italiano è in realtà una lega-nord che assegna un vantaggio strutturale e di blasone a sole squadre settentrionali. Basti pensare che i 9 scudetti del Genoa sono tutti racchiusi in quegli anni, ma se ne contano anche 3 del Milan, 2 dell’Inter, 1 a testa di Juventus e Bologna, più altri 9 di diverse società poi decadute.
Nel 1923 fa il suo ingresso nella Juventus la famiglia Agnelli che porta in dote i capitali della Fiat. È il chiaro esempio di come la crescita industriale e i capitali avvantaggino il Nord in generale e la Juventus in particolare, società sino a quel momento in crisi finanziaria, piegatasi sportivamente a Pro Vercelli e Genoa, e poi divenuta la squadra più titolata.
Il Nord calcistico cessa di avere l’esclusiva nel 1926 quando irrompe nel calcio il regime fascista che sfrutta la crescente passione sportiva a scopo propagandistico nei confronti delle masse cui impone il proprio disegno totalitario. Con la “Carta di Viareggio” si apre al professionismo, si blocca l’accesso agli stranieri e, soprattutto, si sancisce la fusione delle squadre di Nord e Sud in un’unica “Divisione Nazionale”. Ma del meridione, in quel torneo, ci sono solo due squadre di Roma e l’esordiente Napoli a fronteggiare 17 compagini del settentrione.
Il PIL pro-capite delle due Italie intanto si divarica sempre di più fino a toccare il massimo storico nel 1951. Se si eccettua lo scudetto del ’42 vinto dalla Roma che è squadra della capitale fascista mussoliniana, il Sud vincerà il suo primo tricolore nel 1970 col Cagliari proprio mentre il paese vive il boom economico e la forbice del PIL si riduce sensibilmente (per poi riallargarsi). E infatti è il Napoli a concedersi nel 1975 il lusso di sborsare la cifra record di 2 miliardi di lire per aggiudicarsi le prestazioni del bomber Beppe Savoldi, avviando così un innalzamento generale delle quotazioni del calciomercato. Ma il Nord è ormai locomotiva del paesee i suoi maggiori imprenditori Rizzoli, Agnelli e Moratti sono i presidenti di Milan, Juventus e Inter.
È in questi anni che nascono due fenomeni; il primo è quello dei “sudisti del Nord“, ovvero una folta pattuglia di giovani emigranti dello sport che, a causa del ridotto giro di denaro che circola intorno al calcio del Sud, si sposta al Nord per cercare fortuna nei club ricchi, più o meno come gli operai che vanno a lavorare in Fiat; paradossalmente, il Cagliari campione d’Italia è l’eccezione che conferma la regola perchè composto da 5 veneti, 4 lombardi, 2 friulani, 1 toscano e 1 solo meridionale che danno l’illusione di poter rompere l’egemonia dei club del Nord. Il secondo fenomeno è quello del tifo organizzato, ora che il calcio è divenuto fenomeno di massa. Si cominciano così a contare i tifosi e anche in questo caso i clubs del Nord dall’ormai ricco palmares attingono dal serbatoio di passione meridionale che non riesce a trovare un riferimento oltre al Napoli.
Anche il calcio settentrionale subisce un trauma spartiacque, quello della tragica scomparsa nel 1949 del “grande Torino” a Superga, nel momento in cui la squadra torinese sta dominando e scrivendo una pagina di storia indimenticata che oscura tutto e tutti. Da quel momento i valori del campionato italiano si cristallizzano in due settori, quello delle tre grandi storiche, ormai “liberatesi” dello strapotere granata, e quello delle altre società con sempre minori risorse finanziarie e influenza. Basti pensare che a partire dal 1950, la Juventus conquisterà 20 dei suoi 27 scudetti, il Milan 15 di 18 e l’Inter 13 di 18, per un totale di 48 titoli delle tre big contro i 13 lasciati alla concorrenza. Tra questi vanno a Sud lo scudetto del Cagliari e i due a testa di Napoli, Roma e Lazio.
I trionfi del Napoli hanno un sapore particolare: il passaggio dello scudetto da Torino a Napoli coincide anche con il passaggio da Platini a Maradona dello scettro di miglior straniero del nostro campionato nel momento in cui è il più ricco e importante del mondo, una sorta di mondiale per clubs in cui presenziano tutti i migliori giocatori del mondo. I due fuoriclasse rappresentano due stili diversi di intendere il calcio, entrambi collocati nelle piazze giuste. A contendere il primato ai partenopei sarà poi un nuovo potere economico, quello incalzante della comunicazione del nuovo “paperone” Silvio Berlusconi che riuscirà a fare del Milan il club più titolato al mondo nel ventennio a seguire.
Dopo più di cento anni di “questione meridionale” sociale e sportiva, l’egemonia delle tre grandi è ormai un dogma del nostro calcio e l’Inter, che per decenni è stata a guardare le rivali vincere, trova nell’altro potere finanziario di Milano, quello petrolifero di Moratti, la risorsa per dominare il mercato e aprire il suo ciclo scalzando la Juventus che subisce il più grande danno d’immagine della storia con le tristi vicende di “calciopoli”.
Si può serenamente affermare che da sempre anche il calcio è sbilanciato a Nord, prima per scelte politico-sportive figlie di un processo unitario sbagliato e poi a causa di fattori conseguenti quali l’ampiezza di bacino, la disponibilità e la qualità degli impianti sportivi e la copertura mediatica.
Tra le prime dieci città italiane si concentrano 96 scudetti su 107 ed è indicativo che la prima e la terza metropoli d’Italia, Roma e Napoli, le cui squadre sono comunque sostenute rispettivamente dalla quinta e dalla quarta tifoseria per numero di appassionati, abbiano vinto 5 scudetti contro i 43 di Milano e Torino, seconda e quarta città italiane. Roma e Napoli contano insieme 3.800.000 abitanti (7.300.000 le province) a fronte dei 2.300.000 di Milano e Torino (5.500.000 le province), eppure negli anni le tre società del Nord hanno sottomesso il seguito pur corposissimo delle due grandi del Sud grazie alle vittorie ottenute col potere economico. Palermo, quinta città, dal basso delle risorse economiche ridottissime, non ha vinto nulla, così come Bari e Catania, nona e decima, manco a dirlo città del Sud. A Nord va ricordato il caso di Parma, diciannovesima città d’Italia la cui espressione calcistica, nonostante non abbia raggiunto lo scudetto, ha comunque vinto coppe nazionali e internazionali grazie a copiosi quanto discussi investimenti.
Altro elemento da sottolineare è che tra le prime dieci città, Milano, Torino e Genova esprimono due squadre, così come Verona che è la dodicesima; a Sud, Roma a parte, non esiste alcun caso di sdoppiamento e se ciò da una parte conferma una minore fertilità sportiva in relazione alle potenzialità economiche dei territori di provenienza, dall’altra consente al bacino d’utenza napoletano di contrastare in qualche modo quello dei tre top-team e di far sedere così il Napoli al tavolo delle “cinque big”.
Da non tralasciare il coinvolgimento e l’esposizione mediatica di un calcio che “legge” un quotidiano sportivo nazionale a Milano e uno a Torino contro uno a Roma, mentre Napoli ne è privo così come di un network televisivo. La piazza partenopea, per fronteggiare quelle settentrionali, necessita di un’ottimizzazione delle risorse e delle potenzialità a disposizione. Il cineasta De Laurentiis sta conseguendo l’obiettivo, facendo (bene) i conti con la “questione meridionale” del calcio, riportando la società azzurra nell’elite del calcio nazionale e recuperando seguito tra i più giovani e non solo.
La questione calcistica in Italia è dunque assai complessa e non riducibile a ciò che appare nelle bacheche delle società sportive. La forbice tra le tre big del Nord e le due del Sud che siedono al “tavolo delle grandi”, e più in generale tra le due espressioni calcistiche del territorio, sarà impossibile da chiudere fin quando le due Italie continueranno a viaggiare a velocità differenti. Ma potrebbe sensibilmente ridursi se si riuscisse a trattenere a Sud la passione della vasta schiera di meridionali affascinati dalle vittorie delle squadre “a stelle e strisce” divenute un copione attraverso il quale recitare una parte da protagonisti in pubblico. A parziale risarcimento del meridione, in un paese dai mille campanili che tifa contro gli avversari più che a supporto dei propri beniamini, il fatto che Juventus, Inter e Milan non sono solo le più tifate ma anche le più detestate.
Angelo Forgione
Fonte : http://angeloxg1.wordpress.com
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