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martedì 19 giugno 2012

Oro blu: un business tutto privato alla faccia del referendum?


Le Regioni regalano alla lobby dell’acqua almeno 122 milioni di euro all’anno
Alessandro Citarella, Segretario Provinciale del Partito del Sud – Napoli

Comuni e Regioni continuano a tartassare i cittadini con tasse e tariffe per quadrare i conti, ma non sembrano essere particolarmente attivi nel farsi pagare le cifre perse attraverso la privatizzazione, di fatto, delle sorgenti pubbliche, permesse da diverse Regioni.  Un rapporto prodotto da Legambiente stima che la perdita per i comuni si aggira attorno ai 122 milioni di euro ogni anno, che va ad arricchire le ditte private che sfruttano le sorgenti pubbliche, in barba alle chiare indicazioni contro la privatizzazione dell’acqua pervenute dai referendum popolari che si sono svolti lo scorso anno.
Il Partito del Sud sostiene che l’acqua è un bene primario non commerciabile e che le indicazioni dei referendum andrebbero attuate in pieno, attraverso le necessarie procedure per riportare sotto il controllo pubblico tutte le fonti d’acqua potabile.  Il Partito sostiene che sarebbe necessario che i Sindaci si muovessero in modo efficiente ed efficace per recuperare ogni euro finito illegittimamente nelle casse delle ditte private.
Si prende atto che, in assenza di una legge nazionale, ogni Regione sembra poter fare ciò che vuole, dove una preoccupante serie di vuoti legislativi e normativi, permette ad alcuni privati di sfruttare con massimo profitto e minimo rischio, un bene che, in diverse sedi politiche e istituzionali, sia stato già definito un bene pubblico.
Attraverso uno studio condotto Legambiente con Altreconomia, si scopre che in alcune regioni, come la Liguria, i canoni di concessione per lo sfruttamento delle sorgenti naturali sono stati stabiliti da regolamenti vecchi di trent’anni o, addirittura, come in Molise, da un regio decreto sabaudo. “Anche in Emilia Romagna, Puglia e Sardegna” si legge nel dossier “le società non pagano un centesimo per l’acqua imbottigliata o estratta, ma versano una sorta di obolo solo per la superficie utilizzata”.
Nel 2006, la Conferenza delle Regioni aveva dato indicazioni per una revisione dei canoni, indicando tre tipologie: da 1 a 2,5 euro per metro cubo o frazione di acqua imbottigliata; da 0,5 a 2 euro per metro cubo o frazione di acqua utilizzata o estratta; almeno 30 euro per ettaro o frazione di superficie concessa. Ma da allora solo tredici Regioni hanno rivisto la normativa e nove di queste “hanno recepito le indicazioni in modo solo parziale o al ribasso”. Il risultato è che le casse pubbliche restano vuote, mentre le società imbottigliatrici continuano a fare profitti eccezionali sulle spalle della collettività, sfruttando un bene pubblico inalienabile, ovviamente con la connivenza dei vertici istituzionali.
Se si ipotizzasse un canone uguale per tutto il territorio di 10 euro a metro cubo imbottigliato (mille litri), secondo Legambiente nel 2010 si sarebbero ricavati ben 122 milioni di euro: appena il 5% del totale dei guadagni annuali delle aziende imbottigliatrici, che in Italia impiegano quaranta mila persone.  In Sardegna, ad esempio, i guadagni passerebbero dai trentaquattro mila euro attuali a oltre due milioni; l’Emilia-Romagna incasserebbe non più gli attuali trentacinque mila euro ma tre milioni e 870 mila euro.
Pochi giorni fa il consiglio regionale del Veneto ha prorogato sino al 2015 le riduzioni del pagamento dei diritti di prelievo, rinunciando a oltre 10 milioni di euro. La Regione Toscana si è “impegnata” a rivedere i canoni verso l’alto, mentre alcuni comuni lombardi hanno “chiesto” a Milano di destinare i fondi alle amministrazioni sul cui territorio ricadono le concessioni o gli stabilimenti di imbottigliamento. Anche la “virtuosa” Provincia di Bolzano figura tra i “sordi”.
Secondo Giorgio Zampetti, coordinatore scientifico di Legambiente, “un aumento dei canoni porterebbe anche altri vantaggi, come l’aumento dei prezzi e il riallineamento dei consumi alle medie europee, ovvero verso il basso. Così si ridurrebbe l’impatto ambientale del business dell’oro blu, che a tutt’oggi prevede l’utilizzo di oltre 350 mila tonnellate di PET (la plastica usata per le bottiglie), per un consumo di 700 mila tonnellate di petrolio e l’emissione di quasi un milione di tonnellate di CO2″.  Si deve, infatti, tenere conto che 78% delle bottiglie utilizzate è di plastica e solo un terzo è riciclato, mentre i restanti due terzi “inquinano”.
Comunque, con l’aumento delle campagne di sensibilizzazione a favore dell’acqua del rubinetto, il consumo pro-capite di acqua in bottiglia è sceso da 190 a 186 litri ogni anno (l’Italia ha il primato europeo).  Nel 2010, la produzione totale è stata di dodici miliardi di litri di acque minerali: il 2% in meno rispetto al 2009, per un calo del giro di affari dei produttori di 100 milioni di euro (da 2,3 a 2,2 miliardi di euro totali).  Questa diminuzione è utile ma non serve a sradicare il sistema di privatizzazione de facto delle sorgenti e del pagamento di canoni irrisori agli enti locali, come invece hanno chiaramente indicato i risultati dei referendum dello scorso anno, permettendo alle società d’imbottigliamento di continuare a fare guadagni enormi, forse contando su rapporti non sempre limpidi fra imprese private e politica.
Abbinata alla necessità di riordinare in senso democratico la gestione di tutto il sistema idrico, e di riequilibrare i rapporti fra pubblico e privato rispetto al rapporto economico con l’industria dell’imbottigliamento dell’acqua, c’è la necessità di garantire che l’acqua del rubinetto sia di buona qualità. Legambiente ha denunciato lo scorso marzo, in occasione della giornata mondiale dell’acqua, che i controlli in Campania sono inefficienti o fuori regola e che il cittadino consumatore non ha le garanzie dovute per la qualità dell’acqua destinata al consumo.
Gli interessi lobbistici prevalgono sul bene comune? Sembrerebbe di sì.  E’ interessante notare che fra le Regioni bocciate dal dossier di Legambiente non c’è alcuna differenza tra centrosinistra e centrodestra.

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