Giornalista, autore di Terroni (Piemme editore)
"Ma le sembra il momento di raccontarlo?", mi ha chiesto, in un dibattito alla radio, uno dei nostri maggiori storici, a proposito del mio Terroni, tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali. Mi son cascate le braccia e ho risposto: «Sono passati 150 anni, professore, e ancora non avete trovato il momento giusto per dirci come sono andate davvero le cose? Le nostre cose. Ho fatto elementari, medie, superiori, ho cambiato tre facoltà universitarie (abbandonate per il giornalismo): avessi trovato un rigo sulle stragi compiute al Sud dai piemontesi per unificare l'Italia. Stupri, torture, esecuzioni e incarcerazioni di massa; il saccheggio delle risorse del Regno delle Due Sicilie, la chiusura, persino a mano armata e sparando sugli operai, delle aziende, fra cui i più grandi stabilimenti siderurgici del tempo in Calabria, a Mongiana, o le più grandi officine meccaniche a Pietrarsa (Napoli), studiate da tutti i paesi industrializzati contemporanei. Venne distrutta un'economia che stava costruendosi un futuro ed ebbe solo un passato». Mi è stato anche detto che il sorprendente successo di Terroni sta generando un movimento di popolo, una sorta di leghismo del Sud, simmetrico e opposto a quello di Bossi e complici. Ma è una immeritata sopravvalutazione del libro, il cui risultato è conseguenza, non causa, di sentimenti e risentimenti ormai diffusi e in crescita al Sud. Ripeto: ci sono libri che cambiano la gente e la storia, ma Terroni non è fra questi. Mio padre non si chiamava Giuseppe e non faceva il falegname e io sono nato di febbraio. E pur avendo portato la barba per anni, sono mai stato a Treviri. Salviamo almeno le proporzioni, cercando però di non esagerare all'incontrario. «Lei non è uno storico», mi è stato rimproverato. Appunto, sono giornalista, pratico la professione che consiste nell'entrare negli argomenti con curiosità e tecniche di divulgazione. Vale per la cronaca, l'economia, lo sport, la politica, e persino (può capitare, bisogna farsene una ragione) la storia. Insomma, se ci hanno detto che il Sud, al momento dell'Unità, era povero, arretrato e oppresso e scopro che non era vera nessuna delle tre cose, lo dico o no? Lo dico. E arrivo pure buon ultimo. Non era povero, e ce lo avevano spiegato giganti del meridionalismo, da Giustino Fortunato (alla fine, disse che si stava meglio con i Borbone), a Francesco Saverio Nitti (da presidente del Consiglio, scoprì che quando si fece cassa comune, i due terzi dei soldi all'Italia unita li aveva portati il Sud, e il resto d'Italia messo insieme provvide all'altro terzo), ad Antonio Gramsci. E lo ha ora dimostrato il Cnr, con lo studio sulla ricchezza prodotta, regione per regione, anno per anno, dal 1861 al 2004. Non c'era differenza fra Nord e Sud e ci vollero ottant'anni di discriminazione e rapina per concentrare nel meridione tutta la povertà del paese. Ma, pur nella ferocia dei tempi, la distribuzione di quella pari ricchezza era tale che mentre dal Nord si emigrava a milioni, dal Mezzogiorno no. In millenni la gente cominciò ad andar via dal Sud solo dopo l'Unità e la creazione di quella che poi fu chiamata Questione meridionale. Prima il sud era sempre stato terra di immigrazione, in cui erano arrivati popoli da ogni dove. E non era arretrato. Si usa ricordare che mentre Piemonte e Lombardia avevano una vasta rete ferroviaria, il Sud, che pure era stato il primo a far viaggiare i treni, era rimasto indietro. Un confronto disonesto: se quelle regioni del Nord non hanno sbocco sul mare, il Regno delle Due Sicilie, con migliaia di chilometri di coste, aveva programmato decenni prima lo sviluppo dei commerci via mare, dotandosi della seconda flotta commerciale del continente; Napoli era la terza capitale europea, partoriva brevetti e nuove discipline (vulcanologia, archeologia, economia politica...). Se ricordi queste cose, ti rimproverano di essere nostalgico borbonico (non è; ma anche fosse?), monarchico (boom! Nemmeno se sul trono ci fossi io!), e di descrivere quel Sud bello e perduto come un Eden (il solito Galli Della Loggia, ma non solo), mentre c'erano i cafoni, le plebi. Vero, come nelle contemporanee Parigi dei Miserabili di Hugo e Londra di Dickens. E se le altrui eccellenze fanno dimenticare le plebi, le plebi meridionali cancellano le eccellenze. Quanto all'essere oppressi (in quel Sud tomba di Pisacane, fratelli Bandiera e oppositori indigeni), Lorenzo Del Boca rammenta che a giustiziare il maggior numero di patrioti italiani non fu l'Austria, ma il Piemonte. Ai meridionali, la liberazione per mano savoiarda costò centinaia di migliaia di morti (Civiltà Cattolica scrisse: un milione), con paesi rasi al suolo e la gente bruciata viva nelle case, dopo il saccheggio e gli stupri. Tutti «briganti»! Cominciò allora quella «educazione alla minorità» che indusse i meridionali ad accettare un ruolo subordinato e certi settentrionali a ritenersi italiani meglio riusciti, con più diritti. Ma se mi dicono che il paese fu unito da mille idealisti nordici che liberarono «quelli là», tuttora fannulloni e delinquenti, nonostante ci si sveni per loro da 150 anni, ti meravigli se non li sopporto più e divento leghista? E se sono pure razzista e li chiamo «porci» (Bossi), «topi da derattizzare» (Calderoli, come Goebbels), «merdacce mediterranee» (Borghezio), «cancro» (Brunetta). Sconfitta la Germania di Hitler, fu indetta una conferenza stampa per comunicare la fine del nazismo e la liberazione dell'Europa. «Un passo avanti per la civiltà?», chiese un giornalista. «Cosa? Civiltà? Bella idea, qualcuno dovrebbe cominciare», fu la risposta. Cosa? Unità d'Italia? Bella idea, qualcuno dovrebbe cominciare. Almeno dopo 150 anni, visto che è stato fatto un Paese disunito: in una sua parte fornito di infrastrutture, autostrade, treni ad alta velocità; e in un'altra ci sono oggi mille chilometri di ferrovia in meno rispetto a prima della seconda guerra mondiale. Matera, capoluogo di provincia, aspetta ancora «la vaporiera» delle Fs, e l'alternativa a mulattiere asfaltate è la Salerno-Reggio Calabria.
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