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lunedì 29 novembre 2010

Neomeridionalismo e Felicità - Da una società del ben-avere ad una del ben-essere



riportiamo uno scritto - totalmente condivisibile - del prof. Cataldo Godano, nostro iscritto e membro del Comitato Direttivo della sez. Guido Dorso di Napoli, che è una dotta riflessione di una delle menti più lucide e colte del Partito del Sud :


di Prof.Cataldo Godano
Università Napoli tre

La ricostruzione della identità del sud del nostro paese è emersa dai meandri oscuri in cui era stata cacciata dalla storiografia ufficiale e si è imposta come questione prioritaria per il rilancio della questione meridionale come problema politico da affrontare e risolvere. E' quindi diventata ineludibile la necessità di ricostruzione storica del risorgimento e dei fatti postrisorgimentali. Io vorrei qui porre l'accento su un ulteriore aspetto utile alla ridefinizione di una identità forte del mezzogiorno d'Italia: la questione della felicità.
Il primo passo da compiere è riconoscere che al sud si vive meglio e non solo per gli evidenti fattori climatici che lo rendono attrattivo, ma soprattutto per la qualità e l'estensione delle relazioni interpersonali che il popolo meridionale è in grado di instaurare.
Lo stereotipo del meridionale come "uomo di cuore" è una riduzione ad aspetto folkloristico di questa capacità di relazionarsi all'altro che altrove non si osserva. Due questioni correlate a quest'aspetto meritano la nostra attenzione:
Al sud esiste una rete di relazioni sociali molto più estesa che altrove. Dove ad esempio è possibile lasciare andare un bambino per strada certi che qualcuno si occuperà di lui, se non in un quartiere popolare delle città meridionali? Anche qui uno stereotipo imposto sempre come un aspetto folkloristico ha una grande rilevanza socio-economica da ripensare e rivalutare.
La grande flessibilità del tessuto sociale consente sia di accogliere con facilità il diverso da se (si veda ad esempio l'elevata densità di "femminielli" nei quartieri popolari di Napoli) sia di trovare soluzioni concrete ai problemi posti ad esempio dall'assenza dello Stato che la scellerata gestione della cosa pubblica da parte dei piemontesi ha imposto al sud nel post-risorgimento. Come al solito un aspetto socio-economico di grandissima rilevanza è stato trasformato in un aspetto di folklore diventando ad esempio la famosa "arte di arrangiarsi" napoletana.
Quando il sud riesce a produrre positività questa viene sempre squalificata e ridotta folklore. La capacita relazionale ed il tessuto sociale che di questa si alimenta, sono una enorme ricchezza spesso ridotta ad elemento di costume e non valorizzata al giusto livello. La verità è che al sud si ha una migliore qualità della vita, al sud si è più felici!!
La felicità non deve qui essere vista come un qualcosa di difficilmente definibile e estremamente legata alla soggettività individuale, al contrario essa è talmente concreta ed oggettiva da essere addirittura misurabile. La felicità soggettiva, intesa come percezionedel grado di soddisfazione delle proprie aspettative, può essere misurata tramite dei semplici questionari (si veda ad esempio l'enorme lavoro svolto dal Global Social Survey negli Usa). Ma la sua misurazione può essere eseguita anche tramite parametri oggettivi quali ad esempio il tasso di suicidi, la diffusione della droga o dell'alcolismo, etc.
Le statistiche sulle misure di felicità rivelano un dato quantomeno sconcertante, esiste una correlazione inversa tra prosperità economica e felicità, i paesi più felici sono la Nigeria seguita dal Vietnam, il Messico e la Colombia. Sembrerebbe quindi che il denaro non compra la felicità. E' ovvio che questa affermazione non implica l'inversa ovvero "chi non ha denaro è felice". Il punto è che maggiore è la prosperità economica minore è il tempo dedicato alle relazioni sociali e alla cura dell'ambiente in cui si vive. Questo aspetto meriterebbe un approfondimento che non può essere fatto in questa sede, ci basti per il momento osservare l'esistenza di un meccanismo perverso attraverso il quale compensiamo la mancanza di affettività con maggiori consumi, e più consumiamo più ci rinchiudiamo in una sfera privata diminuendo le relazioni sociali e l'affettività. Un celebre pubblicitario ebbe a dire “Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma”. Si crea così un circolo vizioso dal quale sembra impossibile uscire. Ci si può chiedere attraverso quale meccanismo siamo spinti a rinunciare alla felicità in cambio di denaro.
La risposta la fornisce Serge Latouche nel libro "L'invenzione dell'economia!. In chiave neo-weberiana Latouche spiega la nascita del capitalismo come una trasformazione in chiave positiva del concetto di amor proprio che prima della rivoluzione industriale aveva una accezione del tutto negativa e dopo ne acquisisce una positiva. In altri termini il capitalismo nasce da una visione egoista delle relazioni sociali e da una trasformazione dei rapporti umani in chiave privatistica. E' solo in una sfera privata che cresce il bisogno di consumo il quale fa crescere il Pil del paese in cui si vive. Ma a che prezzo? Fino a quando saremo disposti a sacrificare la nostra felicità sull'altare della prosperità economica?
Il prezzo che paghiamo è enorme sia in termini di felicità soggettiva ed oggettiva sia in termini di distruzione dell'ambiente. Per poter aumentare il nostro reddito siamo disposti a vivere in città sempre più sporche ed insicure, siamo disposti a trascorrere sempre più tempo in mezzi di trasporto sempre più insufficienti, siamo disposti a ridurre il tempo di vita per far crescere quello di lavoro. In questo processo acquistiamo sempre più beni privati e ne perdiamo sempre più di comuni come ad esempio un ambiente pulito in cui vivere. Che fare?
Per dirla con Stefano Bartolini ("Manifesto per la felicità") è necessario passare da una società del ben-avere ad una del ben-essere. Un primo passo dovrebbe essere quello di abbandonare il Pil come indicatore di benessere di un paese e sostituirlo con indicatori difelicità più consoni a descrivere il benessere reale delle persone. Ma la questione decisiva è quella di avere uno sguardo più attento all'ambiente in cui viviamo. Il modello di sviluppo privatistico ed egoista si fonda su una possibilità di crescita infinita. Al contrario bisogna fare i conti col fatto che il nostro pianeta ha dimensioni finite e che finite sono le risorse a nostra disposizione. La risposta non può quindi che essere quella che Serge Latouche chiama una decrescita serena. Esiste un nesso strettissimo tra decrescita e società basata sulle relazioni umane. Più tempo dedichiamo a queste, più tempo recuperiamo alla vita, meno ne dedichiamo al lavoro e alla produzione di prosperità economica, meno inquiniamo e rendiamo invivibile il nostro pianeta. La chiave di volta per non lasciare una impronta ecologica insopportabile per i nostri figli, è la necessità di tornare ai livelli di consumo degli anni 60-70 riducendo i consumi intermedi (trasporti, energia, imballaggi, pubblicità) e lasciando inalterati quelli finali.
Lo strumento economico per consentire una decrescita serena è la localizzazione delle attività economiche. E' cioè necessario legare i processi economici al territorio e alle reali necessità della popolazione che in quel territorio vive. Un esempio semplice e concreto di questo processo di localizzazione sono i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) che, acquistando le merci direttamente dal produttore agricolo, consentono un controllo diretto sulla loro qualità con un enorme vantaggio per il cittadino che acquisisce serenità rispetto a ciò che magia, il pagamento di un prezzo equo per il produttore che non sarà più strozzato dalla distribuzione e la riduzione dei consumi intermedi (trasporto, pubblicità) che favorisce la decrescita serena e lo sviluppo di una società relazionale.
Lo strumento politico è il federalismo, quello vero! Quindi non quello teso alla salvaguardia delle risorse economiche di un Nord ricco che elargirebbe denaro ad un Sud povero e depresso (sappiamo tutti che non è così), ma un federalismo volto alla salvaguardia di un territorio e di un ambiente in cui le persone possano essere più felici.
Io credo che questo possa e debba essere il nocciolo di un pensiero neomeridionalista moderno e all'avanguardia e che ci consenta allo stesso tempo di fare i conti con la crisi della politica. La storia degli ultimi 50 anni ha visto sempre più una politica asservita al malaffare e alla crescita della sfera privatistica della vita. Questo ha portato ad una sempre maggiore allontanamento delle persone dalla politica vista sia come questione riguardante i pochi eletti destinati a gestire il potere ed il malaffare, ma anche come qualcosa di troppo lontano dalla propria sfera privata e dalla individuale frenesia per una sempre maggiore prosperità economica individuale.
L'introduzione di nuovi contenuti politici, di una maggiore attenzione alla felicità delle persone e alle relazioni sociali, di una visione post-politica (destra e sinistra sono solo delle indicazioni stradali), possono essere lo strumento di un riavvicinamento della gente alla politica e di una espressione di un voto più libero e consapevole.

Benvenuto Partito del Sud!

3 commenti:

  1. Il nostro professore ha scritto un articolo di cui condivido le conclusioni (decrescita), non le premesse. Sostiene che al Sud si viva meglio soprattutto per la qualità e l'estensione delle relazioni interpersonali che il popolo meridionale è in grado di instaurare ma che purtroppo tutto ciò venga ridotto e sminuito a mero folklore. Questo sarebbe dovuto ad una minor attecchimento della mentalità capitalistica, a sua volta frutto di una minor ricchezza, il che lascia più tempo alle relazioni sociali. Tali premesse mi trovano in totale disaccordo: io ignoro questo professorone di quale parte sociale sia figlio, ma sospetto che sia cresciuto in un contesto abbastanza protetto e che la società in cui vive l'abbia conosciuta solo da "Un posto al sole". Io sostengo che invece lo stereotipo del meridionale come "uomo di cuore" sia proprio ciò che il professorone nega: puro folklore. Sappiamo bene la gente meridionale, dietro la facciata di allegria, come sia divisa da invidie, rancori, risentimenti, classismo, rabbia sociale che tutti i giorni gli avvelena la vita. L'80% dei discorsi (non che faccio ma) che sento fare è di questo tenore: "Ua' chill sta schiattat e sord". Il problema la nostra società ha perso l'innocenza dei bei tempi da un pezzo, è permeata dalla mentalità capitalistica almeno quanto quella del nord, ma mentre il nord possiede il reddito per poterne bene o male inseguire le illusioni, quello meridionale non può far altro che guardare, sbavare senza poter banchettare. E la frustrazione è tanto forte che alcuni si organizzano in cosche (nasce la camorra) e disposti a tutto pur di poter vivere "alla grande", inseguono l'illusione capitalistica con ogni mezzo, anche a prezzo di lutti insensati o addirittura a rischio della propria vita e di quella dei loro cari. Tra l'altro di che qualità della vita ci possiamo mai vantare visto che abbiamo le terre concimate coi fanghi industriali? Lo stereotipo del meridionale come "uomo di cuore" e altri luoghi comuni come il napoletano furbo e via discorrendo sono storielle inventate da un popolo vessato per lenire il dolore delle umiliazioni che da troppo tempo subisce. La cosa grave è che su tali stereotipi non solo ci crede la stessa Napoli, ad essi conformandosi e modellandosi ma ci ricama tutta l'Italia e ne fa argomento di denigrazione. Vi ricordate la retorica di "Napoli, una città che ha tanti problemi ma la domenica siamo felici" dell'era maradoniana? Come possiamo dar torto al nord che ci dice ad esempio che ci descrive come dei pirlacchioni per i quali conta solo Maradona se per primi ce lo diciamo noi stessi? Il primo passo per la rinascita del Sud sarebbe proprio quello di mettere fuorilegge questi trastullii pseudosociali. Bisogna abbandonare la retorica del "pur iss adda campa'" aut similia se si vuole incominciare a pensare di costruire qualcosa di concreto. Purtroppo se di questo non se ne rende conto neanche la classe dirigente (professorone docet) allora siamo proprio messi male...

    giuseppe.luxa@gmail.com

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