mercoledì 19 febbraio 2014
Una riflessione di Giovanni Cutolo su potenzialità inespresse della Sinistra a Napoli e sul Sud !
LE
OCCASIONI PERDUTE
di Giovanni Cutolo
Guido
Piegari (Napoli 1927-2007) si laurea in medicina nel ’55 presso l’Università
degli Studi di Napoli. La sua passione per la filosofia e la storiografia lo
spinge a frequentare l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli e a
fondare nel 1951 il Gruppo di Studio Antonio Gramsci che lavora intensamente
fino al ’54 promuovendo, presso l’Università Federico II corsi di studio e
dibattiti sulla storia del Risorgimento italiano. Oltre a Piegari, fanno parte
del Gramsci, tra gli altri, Gerardo Marotta, Ennio Galzenati, Giovanni Allodi,
Ugo Feliziani, Enzo Oliveri. La non dissimulata passione hegeliana portava
Piegari ad affermare che in politica l’essenziale sta nel porre nei termini
giusti il problema dello Stato. Era convinto che tutti gli altri problemi non
potessero essere considerati che problemi derivati
dallo Stato, dalla sua forma, dalla sua struttura, dal suo assetto, dalla
sua definizione territoriale. In quest’ottica, per esempio, la stessa
“questione meridionale” avrebbe dovuto essere considerata in maniera subalterna, come questione non
risolvibile altrimenti che nella più generale battaglia per il rinnovamento
dello Stato unitario. In caso contrario – vale a dire nell’ipotesi di
un’esaltazione della “questione meridionale” come problema autonomo, non derivato, specifico non già dell’intera
collettività nazionale bensì delle sole popolazioni del Sud – si sarebbe
riusciti certamente a strappare elemosine varie, contributi, incentivi, e leggi
speciali, ma con il risultato non soltanto di non debellare i mali storici del
Sud ma di aggravarli fomentando particolarismi, appetiti, parassitismi,
rivalità. Vale la pena sottolineare che oggi il Partito del Sud ripropone, con
altre parole e in un altro contesto, la stessa tesi, anche noi convinti che il
Sud è un problema dell’Italia tutta e non della sua parte meridionale. Perché
non è l’Italia a soffrire per il problema del Sud, ma è esattamente l’opposto:
è il Sud che soffre di un problema chiamato Italia.
Pur
operando all’interno del Partito Comunista, il Gruppo Gramsci non rinuncia alla
difesa di posizioni assai critiche nei confronti della dirigenza della
federazione napoletana, nella errata convinzione che Togliatti avrebbe
approvato e sostenuto le loro tesi. Ma si sbagliavano perché il centralismo
democratico, che imponeva l’obbedienza assoluta agli iscritti, sopravvisse a
lungo anche dopo la morte di Stalin. Piegari e i suoi amici ritenevano che,
sotto la guida di Giorgio Amendola, il Partito stesse perseguendo una politica
meridionalistica così esasperata da rischiare di compromettere l’unità
d’Italia, alimentando il grave pericolo della rinascita della contrapposizione frontale
fra Nord e Sud. Era convinzione dei componenti del Gruppo Gramsci che
l’esaltazione della “questione meridionale” come problema autonomo, non derivato, bensì specifico delle sole
popolazioni del Sud anziché dell’intera collettività nazionale, avrebbe
consentito di strappare al Governo di Roma elemosine varie, contributi,
incentivi e leggi speciali. Con il risultato però di aggravare i mali storici
del Sud senza riuscire a debellarli, ma finendo per alimentare e fomentare
particolarismi, appetiti, parassitismi e rivalità.
Del
Gruppo Gramsci faceva parte anche Gerardo Marotta, noto per il suo carattere urticante
e poco incline al contraddittorio, ma soprattutto per essere stato nel 1975 il
co-fondatore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici del quale rimane
tutt’ora il Presidente. Marotta ha dedicato la sua vita alla costruzione di un
monumento di oltre 300.000 volumi a sua maestà Georg Wilhelm Friedrich Hegel e
a quell’illuminismo napoletano che culminò nella rivoluzione del 1799. Una
rivoluzione da lui studiata sin dai primissimi anni cinquanta, quando sotto la
spinta e la guida di Guido Piegari, cominciò a occuparsene. Rivoluzione che ha
appassionatamente difeso e amato a oltranza, al punto da non indurlo a non riconoscere
giudizi e ragioni diversi dai suoi. Come lui stesso ha confessato non ha mai
smesso di amarla nella convinzione che, se non è affiancata dalla passione, la
ragione non sia sufficiente a vivere e a capire. La convinzione di Marotta è
che nel 1799 la storia di Napoli, anzi la storia dell’Italia tutta, si sia
fermata, come paralizzata dal fallimento di quello che fu, a suo avviso, il
generoso tentativo di trasformare la nostra società dalle fondamenta: abolendo
le servitù feudali, abolendo le torture e le carceri segrete, abolendo
l’imposta sui grani, farina, pasta e pesca, cioè sul cibo dei poveri; abolendo
il cosiddetto testatico, la tassa che Campanella definiva la più empia di
tutte, perché anche il più povero dei poveri doveva pagare per ottenere il
diritto portare la propria testa attaccata al corpo. Ma anche i molti che non
condividono questa analisi storica sui fatti del 1799, gli riconoscono di
essere riuscito, con la sua ostinata perseveranza, a fare dell’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli un centro di eccezionale importanza
nazionale e internazionale e di grandissimo valore culturale.
Nello
spazio di pochi mesi, a partire dal marzo del 1954 il Gruppo Gramsci fu prima
sconfessato, poi rapidamente smembrato e infine distrutto dalla normalizzazione
imposta dal compagno napoletano Amendola, con l’avallo cinico del compagno
torinese Togliatti. Si trattò senza alcun dubbio di una disastrosa sconfitta
politica che ha lasciato tracce profonde, contribuendo all’irreversibile
fallimento politico delle forze autenticamente progressiste e aperte al
rinnovamento che esistevano dentro e fuori del Partito comunista napoletano. La
decisione amendoliana di etichettare come progressista
una politica volta a difendere l’idea che il Sud dovesse contrapporsi al Nord del
paese, in ossequio a una visione regionalistica, ristretta e autarchica,
mediocre e chiusa in maniera ottusamente provinciale, ha rappresentato un
errore clamoroso e drammatico per il Partito, per il Sud e per il paese intero.
A
distanza di oltre cinquant’anni vale la pena riflettere ai guasti causati nel
Meridione, ma a Napoli soprattutto, dal fallimento della politica del Partito
Comunista di Giorgio Amendola, descritto dai suoi stessi compagni di partito
come un caso umano patologico: autoritario, insopportabilmente filosovietico,
moralista sino alla persecuzione ma, nello stesso tempo, disponibile a trattare
sottobanco con chiunque, nel solco della più collaudata tradizione
trasformista. Come napoletani e meridionalisti non ci resta che volgerci ai
positivi ritorni culturali conseguiti grazie all’Istituto di Studi Filosofici
dell’ex ragazzo del Gruppo Gramsci. Se al grande successo nel campo della
cultura avesse fatto riscontro un altrettale successo in quello politico oggi
Napoli e il Sud non si troverebbero nelle lamentabili condizioni in cui si
trovano.
Giovanni
Cutolo
N.B.
Ho liberamente utilizzato e
riassemblato brani tratti dal Mistero napoletano di Ermanno Rea
edito da Einaudi, un libro che ritengo di lettura obbligatoria per tutti i
simpatizzanti del Partito del Sud e per tutti i napoletani interessati a
comprendere le ragioni per cui Napoli e il Mezzogiorno d’Italia versano nella
triste situazione che tutti conosciamo e soffriamo
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