martedì 14 agosto 2012
14 agosto 1861, eccidio nefando dei bersaglieri di Cialdini
Il
criminale di guerra Enrico Cialdini, dopo aver massacrato Gaeta con 160 mila
bombe, causando la morte di ben 4000 persone tra civili e militari, oltre ad
aver rasa al suolo la città tirrenica, indirizzò la sua mania di distruzione
verso il Sannio. L'eccidio di Pontelandolfo è stato descritto giorno per giorno
dal sottoscritto nel libro " I Savoia e il massacro del Sud", edito dalla
Gandmelò nel 1996. Fino ad allora nessuno ne parlava. Lo scorso anno lo Stato ha
chiesto scusa alla città sannita. Oggi tutti ne parlano. Abbiamo subito
processi, siamo stati vituperati, sbranati dalla ciurma irregimentata al potere
costituito. Pontelandolfo è solo un simbolo, ma stragi sono state perpretate in
tutta Italia dal regime monarchico sabaudo. Questa repubblica,se vuole diventare
civile, deve prima di tutto condannare senza mezzi termini quella monarchia
infame. Deve cancellare tutte le leggi e decreti legge di quel periodo, tra i
più neri della storia d'Italia. Finchè le istituzioni repubblicane festeggiano
coloro i quali hanno commesso crimini contro l'umanità, al Sud come al Nord
della penisola, non saremo mai promossi tra le nazioni civili. In Germania non
hanno strade intitolate ad Hitler, nè gli ebrei hanno intitolato piazze ai loro
carnefici. In Francia il 14 luglio si festeggia la repubblica e non la
monarchia. L'unità della Francia fu fatta dalla monarchia. In America il 4 di
luglio festeggiano la loro libertà, non quella della monarchia inglese.In
Italia, il parlamento padano momentaneamente di stanza a Roma, ha deciso di
festeggiare il 17 marzo, data in cui nacque il Regno d'Italia. Uno squallore
indicibile.
L'Eccidio
di Pontelandolfo e Casalduni
di
Antonio Ciano
Era
l’alba del 1° agosto dell’anno 1861. A Pontelandolfo si avvertiva nell’aria
odore di fermento. I poveri raccolti non bastavano più a pagare le tasse ed i
balzelli imposti dalle autorità piemontesi. I contadini avevano assistito
increduli alle gesta del generale Garibaldi. Ben presto si erano resi conto che
stava dalla parte dei borghesi, dalla parte dei signorotti. Gli eccidi di
Bronte, Niscemi e Regalbuto l’avevano detta lunga sulla sua appartenenza di
classe a da che parte stava.
I
pontelandolfesi erano stanchi delle razzie piemontesi, della guardia mobile, dei
loro notabili. Le nuove disposizioni del giugno 1861 circa la coscrizione di
leva avevano agitato ancora di più le acque. I giovani preferirono la macchia al
nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte. Il
popolo rimpiangeva i tempi in cui governavano i Borbone e non aspettava altro
che il momento in cui la rabbia di un anno di vessazioni sarebbe esplosa.
L’arciprete
Don Epifanio De Gregorio assieme ad una moltitudine di attivisti borbonici
manteneva i contatti con i contadini, sapeva infondere loro la speranza di un
domani migliore in quanto con il prossimo ritorno di Re Francesco si sarebbe
ristabilito il vecchio ordine. Finalmente ci si poteva organizzare attorno ai
partigiani che stazionavano sui monti e cacciare i liberali dissacratori di
chiese e saccheggiatori di beni.
Nonostante
il servizio al corpo di guardia fosse stato rinforzato, il giorno 2 agosto, il
partigiano Gennaro Rinadi detto Sticco, si presentò al sindaco Melchiorre
consegnandogli una missiva su cui c’era scritto che il sergente dei regi
Marciano, comandante della brigata partigiana Frà Diavolo, chiedeva al primo
cittadino 8.000 ducati, due some di armi e viveri entro 48 ore, altrimenti
avrebbe messo a ferro e fuoco le case dei traditori liberali. Tale somma doveva
essere consegnata al latore del biglietto.
Chiamato
dal sindaco, il 3 agosto giunse in paese il colonnello della Guardia Nazionale
De Marco a capo di una colonna di 200 mercenari. Una cinquantina di guardie
chiusero l’entrata della piazza mentre gli altri cominciarono a razziare le case
dei pontelandolfesi. Ma era rimasto ben poco da rubare, la gente era affamata.
Venne saccheggiata anche la chiesa di San Rocco dove De Marco e i suoi mercenari
avevano preso alloggio.
Durante
la notte tra il 4 ed il 5 agosto le montagne che cingevano Pontelandolfo
brulicavano di partigiani: i fuochi accesi erano tantissimi e davano coraggio
alla popolazione, scoramento e paura ai liberali.
Il
colonnello garibaldino De Marco inquieto diede ordine alla sua colonna di
prepararsi ad abbandonare il paese.
Il
6 agosto emissari di Don Epifanio raggiunsero al galoppo l’accampamento di
Cosimo Giordano per invitare i partigiani regi in chiesa a ringraziare il
Signore.
La
brigata Frà Diavolo composta da circa trenta partigiani, dopo l’azione di
guerriglia di San Lupo si diresse verso Pontelandolfo. Il paese era in festa per
la fiera di San Donato in pieno svolgimento. Tutti aspettavano con impazienza
l’arrivo dei loro eroi, l’arrivo dei partigiani regi comandati da
CosimoGiordano che stava combattendo la guerra santa contro gli infedeli
piemontesi.
Il
7 agosto mentre il campanile rintoccava la quinta ora pomeridiana, la brigata
d’eroi giunse in paese tra ali di folla in festa. L’arciprete Don Epifanio de
Gregorio cominciò a lodare il signore con il Te Deum per ringraziare Francesco
II. I guerriglieri, seguiti da oltre tremila popolani, si diressero verso il
Corpo di Guardia, disarmarono i pochi ufficiali rimasti e lo devastarono. I
quadri di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi furono ridotti in mille pezzi, le
suppellettili furono messe sottosopra. La bandiera tricolore fu staccata e dal
panno bianco si strappò lo stemma sabaudo. Il popolo eccitato, come ubriacato
dall’avvenuta libertà, urlava, gridava la propria gioia.
Angelo
Tedeschi da San Lupo, ritenuto essere la spia dei piemontesi, fu scovato
rannicchiato nella sua stalla, sotto il fieno, e freddato con un colpo di fucile
da Saverio Di Rubbo. Nella bolgia, un colpo vagante colpì, ferendolo, Pellegrino
Patrocco, eremita di Sassinoro, ed un altro colpì in casa sua, uccidendolo,
Agostino Vitale. L’esattore Michelangelo Perugini, liberal massone e reo di aver
spremuto e ricattato i contadini, fu ammazzato e la sua casa bruciata. Il popolo
poteva sfogare la propria rabbia repressa da un anno di sudditanza totale, di
dittatura, di terrore, di ruberie, di violenze subite e mal celate. Cosimo
Giordano ed il suo vice, seguiti dal popolo, si diressero verso la casa
Comunale, ove distrussero i registri dei nati per evitare la chiamata alle armi
dei giovani di Pontelandolfo in caso che i piemontesi avessero rimesso i piedi
nel paese. La bandiera tricolore fu bruciata sul balcone e al suo posto venne
issata quella borbonica. I prigionieri furono liberati dal carcere. Venne
istituito un governo provvisorio. Pontelandolfo, dunque, era diventata il centro
della reazione borbonica nel Sannio. Guerriglieri dei paesi limitrofi,
specialmente quelli di Casalduni e di Campolattaro, erano venuti ad ingrossare
la banda di Giordano per tenere alto l’onore del Regno delle Due Sicilie e di
Francesco II.
Il
9 agosto, trenta partigiani furono scelti per attaccare la carrozza postale che
ogni giorno passava per la provinciale, portando qualche passeggero e i soldi
che servivano alle spese della truppa e degli impiegati piemontesi. Soldi e
balzelli che il governo di Torino esigeva dalle popolazioni, che dovevano
persino pagare la famosa tassa di guerra. Non vi fu alcuna azione cruenta, a
tutti i passeggeri furono rubati solo i soldi ed i loro preziosi. Intanto Cosimo
Giordano fece fucilare Libero D’Occhio dopo un processo sommario che lo
riconobbe spia dei piemontesi e traditore della patria.
La
bandiera gigliata sventolava sui pennoni più alti. Con i soldi sequestrati dai
partigiani furono sfamate le famiglie che più avevano bisogno. Al Comune si
distribuiva il pane, i muri delle case erano tappezzati di manifesti inneggianti
alla rivolta contro i piemontesi e le strade piene di volontari. I manifesti
affissi durante la notte dai partigiani della banda Giordano riportavano il
proclama del Comandante in CapoChiavone che operava tra la Ciociaria e gli
Ausoni.
Su
ordine del Generale Cialdini il 13 agosto partì da Benevento una colonna di
bersaglieri, tutti tiratori scelti, comandata dal Generale Maurizio De Sonnaz,
detto Requiescant per le fucilazioni facili da lui ordinate e per il massacro di
parecchi preti e l’attacco ad abbazie e chiese. Il generale piemontese era a
capo di novecento bersaglieri assassini e criminali di guerra. Il colonnello
Negri procedeva a cavallo, con al suo fianco il garibaldino del luogo de Marco e
due liberali pure del posto a far da guida ai cinquecento bersaglieri, che
costituivano la colonna infame che stava dirigendosi verso Pontelandolfo.
Un’altra colonna di quattrocento bersaglieri si stava portando verso
Casalduni.
Era
l’alba del 14 agosto. Gli ordini di Cialdini erano precisi: Pontelandolfo doveva
pagare con la morte la sfida fatta al potente Piemonte.
La
banda di Cosimo Giordano bivaccava a circa un chilometro dal paese, nella selva,
tra i monti presso la località Marziello. I partigiani avvertiti dai pastori,
s’erano appostati per tendere un agguato ai piemontesi, ma erano solo cinquanta.
Una scarica di pallottole colse di sorpresa i bersaglieri. Tutti scesero da
cavallo, qualcuno cadde morto, altri furono feriti, altri ancora risposero al
fuoco, ma era ancora buio e la selva copriva le ombre dei partigiani borbonici,
i quali continuavano a sparare sul mucchio, alla cieca, non potendo mirare
giusto data l’ora mattutina. La sparatoria durò pochi minuti, ma fu feroce e
ravvicinata. Gli uomini di Giordano, avvantaggiati dall’effetto sorpresa vedendo
che i bersaglieri prendevano posizione di combattimento e presagendo una
sconfitta, naturale, date le forze in campo, si diedero alla fuga. I bersaglieri
contarono venticinque morti. Il colonnello Negri, anziché inseguire i patrioti
di Giordano, diede ordine al plotone di comporre le salme dei caduti e di
proseguire la marcia verso Pontelandolfo. L’esercito piemontese circondò il
paese, fucile alla mano, pronto a far fuoco. Un plotone, con il De Marco e due
liberali, entrò nella città ad indicare le case dei settari massoni da salvare.
Portata a termine l’operazione salvataggio dei settari, che non superavano la
decina, i bersaglieri si gettarono a capofitto nei vicoli e nelle strade di
Pontelandolfo. Erano le quattro del mattino quando ebbe inizio l’eccidio. Le
case furono incendiate. Gli abitanti, armati di roncole e forche, tentarono una
sterile difesa, ma i fucili dei piemontesi ebbero inesorabilmente la meglio su
di loro. Alcuni vennero stesi nella propria abitazione, altri dormienti nel
proprio letto, altri mentre fuggivano. Qualcuno riusciva ad oltrepassare la
porta di casa ma veniva abbattuto sull’uscio senza pietà. Grida, urla, gemiti
dei feriti, pianti dei bambini. Pontelandolfo fu messa a ferro e fuoco. Tutto il
paese bruciava. Nicola Biondi, contadino sessantenne, fu legato ad un palo della
stalla da dieci bersaglieri, i quali denudarono la figlia Concettina, di sedici
anni, e tentarono di violentarla. Ma la ragazza difese strenuamente l’onore.
Dopo un’aspra colluttazione, sanguinante cadde a terra esanime. Una scarica
micidiale di pallottole abbatté il padre Nicola. Decine e decine erano i
cadaveri disseminati nei vicoli, nelle strade, nelle piazze. Alle ore sei metà
paese era in fiamme, mentre i bersaglieri continuavano la mattanza. Ancora
uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla. I vecchi venivano fucilati subito e
così i bambini che ancora dormivano nei loro letti. Dopo aver ammazzato i
proprietari delle abitazioni, le saccheggiavano: oro, argento, catenine,
bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti. Il sangue
scorreva a fiumi per le strade di Pontelandolfo. Prima ad essere saccheggiata fu
la chiesa di San Donato, ricca di ori, di argenti, di bronzi lavorati, di voti,
persino le statue dei santi furono trafugate. Il saccheggio e l’eccidio durarono
l’intera giornata del 14 agosto 1861. Donne seminude, sorprese mentre dormivano,
cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie, venivano subito infilzate, se giovani
ed avvenenti, venivano violentate e poi uccise. I morti venivano accatastati
l’uno sull’altro. Chi non riusciva a morire subito doveva anche sopportare la
tortura del fuoco, che veniva appiccato sopra i cadaveri con legna secca e
fascine fatte portare lì da giovani sotto la minaccia delle baionette.
Dopo
ore di stragi, di eccidi, di massacri, di ruberie, il generale De Sonnaz* fece
suonare l’adunata ed il ritiro della colonna infame. Al suono del trombettiere
tutti si ritirarono. Inquadrati sull’attenti al cospetto del generale De Sonnaz
e del colonnello Negri, si diressero verso Benevento, ove il giorno dopo, nei
loro alloggiamenti, mercanteggiarono tutto il bottino sacro profanato. Il
laconico messaggio del colonello Negri, di passaggio da Fragneto Monforte,
recitava:
Truppa
Italiana Colonna Mobile – Fragneto Monforte lì 14 Agosto 1861 ore 7 a.m.
Oggetto: Operazione contro i Briganti: Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta
contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora. Il sergente del 36°
Reggimento, il solo salvo dei 40, è con noi. Divido oggi le mie truppe in due
colonne mobili; l’una da me diretta agirà nella parte Nord ed Est, l’altra sotto
gli ordini del maggiore Gorini all’Ovest a Sud di questa Provincia la quale
pure, come più prossima a Benevento, dovrà tenere frequenti comunicazioni colla
S.V. Informi di ciò il Generale Cialdini ed il Generale Pinelli. Il Luogotenente
Colonnello Comandante la Colonna; firmato Negri.
Al
Sig.Governatore della provincia di Benevento p.s. Stasera sono a Fragneto
l’Abate, ove, occorrendo può farmi tenere sue nuove fino alle nove di
notte.
Per
copia conforme
L’ennesimo
truculento eccidio era stato portato a compimento con forsennata ferocia e senza
pietà alcuna verso una popolazione inerme, fiera del suo Re Borbone, fiera della
sua dignità, fiera della sua libertà, fiera della sua storia ultrasecolare,
fiera di essere italiana, fiera della sua religione.
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*
De Sonnaz: Soprannominato Requiescant per la sua propensione alle fucilazioni
sommarie [N. d. R.]
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